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Bugno che stava un’ora a leccare il sorbetto col cucchiarino; il marchese e gli altri nobili seduti in fila dinanzi al Caffè; Bomma predicando in mezzo al solito circolo, sull’uscio della farmacia; uno sciame di contadini un po’ più in là, alla debita distanza; e ogni dieci minuti la vecchia berlina del barone Mèndola che scarrozzava la madre di lui, sorda come una talpa, dal Rosario a Santa Maria di Gesù: le orecchie pelose e stracche delle mule che ciondolavano fra la folla, il cocchiere rannicchiato a cassetta, colla frusta fra le gambe, accanto al cacciatore gallonato, colle calze di bucato che sembravano imbottite di noci, e le piume gialle del cappellone della baronessa che passavano e ripassavano su quell’ondeggiare di berrette bianche.

Tutt’a un tratto accadde un fuggi fuggi: una specie di rissa dinanzi all’osteria. Don Liccio Papa cercava d’arrestare Santo Motta, perchè aveva gridato la mattina; e il capitano l’incitava da lontano, brandendo la canna d’India: — Ferma! ferma!... la giustizia!

Ma Santo si liberò con uno spintone, e prese a correre verso Sant’Agata. La folla fischiava ed urlava dietro allo sbirro che tentava d’inseguirlo. — Ahi! ahi! — disse Bomma ch’era salito su di una sedia per vedere. — Se non rispettano più l’autorità!... — Tavuso gli fece segno di tacere, mettendosi l’indice