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suonava a tutto andare le campane; la folla dalla piazza vociando e gesticolando; tutti i vicini alla finestra. I Margarone stavano a vedere dalla terrazza al di sopra dei tetti, dirimpetto, le figliuole ancora coi riccioli incartati, don Filippo che dava consigli da lontano, dirigendo le operazioni di quelli che lavoravano a spegnere l’incendio colla canna d’India.

Don Ferdinando, il quale tornava in quel momento carico di scartafacci, battè il naso nel corridoio buio contro Giacalone che andava correndo.

— Scusate, don Ferdinando. Vado a chiamare il medico per la sorella di vossignoria.

— Il dottor Tavuso! — gli gridò dietro la zia Macrì una parente povera come loro, ch’era accorsa per la prima. — Qui vicino, alla farmacia di Bomma.

Bianca era stata presa dalle convulsioni: un attacco terribile; non bastavano in quattro a trattenerla sul lettuccio. Don Diego sconvolto anche lui, pallido come un cadavere, colle mani scarne e tremanti, cercava di ricacciare indietro tutta quella gente. — No!... non è nulla!... Lasciatela sola!...— Il Capitano si mise infine a far piovere legnate a diritta e a manca, come veniva, sui vicini che s’affollavano all’uscio curiosi. — Che guardate? Che volete? Via di qua! fannulloni! vagabondi! Voi, don Liccio Papa, mettetevi a guardia del portone.

Venne più tardi un momento il barone Mendola,