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In quel momento si udì un baccano giù in istrada, e corsero in tempo al balcone per vedere arrivare la carrozza degli sposi. Nanni l’Orbo, a cassetta, col cappello sino alle orecchie, faceva scoppiettare la frusta come un carrettiere, e vociava:

— Largo!... A voi!... Guardatevi!... — Le mule, tolte allora dall’armento, ricalcitravano e sbuffavano, tanto che il canonico Lupi propose di smontare lì dov’erano, e Burgio s’era già alzato per scavalcare lo sportello. Ma le mule tutt’a un tratto abbassarono il capo insieme, e infilarono il portone a precipizio.

— Morte subitanea! — esclamò il canonico, ricadendo col naso sui ginocchi della sposa.

Salivano a braccetto. Don Gesualdo con una spilla luccicante nel bel mezzo del cravattone di raso, le scarpe lucide, il vestito coi bottoni dorati, il sorriso delle nozze sulla faccia rasa di fresco; soltanto il bavero di velluto, troppo alto, che gli dava noia. Lei che sembrava più giovane e graziosa in quel vestito candido e spumante, colle braccia nude, un po’ di petto nudo, il profilo angoloso dei Trao ingentilito dalla pettinatura allora in moda, i capelli arricciati alle tempie e fermati a sommo del capo dal pettine alto di tartaruga: una cosa che fece schioccare la lingua al canonico, mentre la sposa andava salutando col capo a destra e a sinistra, palliduccia, timida, quasi sbigottita, tutte quelle nudità che arrossivano