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che passava a ondate, trasportato dal vento, e si sperdeva in lontananza.

Quanti lo incontravano, conoscendo la disgrazia che gli era capitata, dimenticavano di salutarlo e tiravano via. Egli guardava bieco e borbottava di tanto in tanto fra di sè:

— Sono ancora in piedi! Mi chiamo mastro-don Gesualdo!... Finchè sono in piedi so aiutarmi!

Un solo, un povero diavolo, che andava per la stessa strada, gli offrì di prenderlo sotto l’ombrello. Egli rispose:

— Ci vuol altro che l’ombrello, amico mio! Non temete, che non ho paura d’acqua e di grandine, io!

Arrivò al paese dopo mezzogiorno. Il canonico Lupi s’era coricato allora allora, subito dopo pranzo. — Vengo, vengo, don Gesualdo! — gli gridò dalla finestra, sentendosi chiamare.

Qualcheduno che andava ancora pei fatti suoi, a quell’ora, vedendolo così fradicio, piovendo acqua come un ombrello, gli disse:

— Eh, don Gesualdo?... che disgrazia!...

Lui duro come un sasso, col sorriso amaro sulle labbra sottili e pallide, rispondeva:

— Eh, cose che accadono. Chi va all’acqua si bagna, e chi va a cavallo cade. Ma sinchè non v’è uomini morti, a tutto si rimedia.

I più tiravano di lungo, voltandosi per curiosità