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allentate sul collo; la bocca un po’ larga e tumida, ma giovane e fresca.

Il padrone stette un momento a guardarla così, sorridendo anch’esso, e le diede un altro scapaccione affettuoso.

— Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o per Nanni l’Orbo! no!...

— Oh, gesummaria!... — esclamò essa facendosi la croce.

— Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!...

Tacque un altro po’ ancora, e poi soggiunse: — Sei una buona ragazza!... buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre....

— Il padrone mi ha dato il pane, — rispose essa semplicemente. — Sarei una birbona....

— Lo so! lo so!... poveretta!... per questo t’ho voluto bene!

A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quel bel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. — Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!... Ne abbiamo passati dei brutti giorni!... Sempre all’erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno... a far qualche cosa! Sempre l’occhio attento sulla mia roba!... Fedele come un cane!... Ce n’è voluto, sì, a far questa roba!...

Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono: