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istante di vita tanti fasti, tante arroganze, tante superbie, se l’umiltá era quella base sulla quale si dovea salire all’eterne grandezze? Con qual profitto finalmente io, con tanta industria, con tanta ansietá, corsi dietro ai titoli delle glorie litterarie, se una pura simplicitá d’ingegno e di cuore era quella che dovea sublimarmi al vero titolo di beato? —

Quanto è meglio che, sin che mi restano questi quattro giorni di tempo, io ci pensi, perché può essere che, prima che V. S. abbia finito di leggere questa lettera, venga quel punto fatale nel quale dovrò fare le sudette considerazioni. Allora altre stelle cadenti ed altro giudizio finale mi verrá nella mente, che quello che dalla bellezza lasciva di due lumi viene con tanto ingegno rappresentato al cuore amante. Allora nissuna altra spezie d’amorosa trasanimazione mi verrá in pensiero, se non quell’una che io dovea fare in Cristo, perché Cristo non fantasticamente ma realmente era quello che communicava a me stesso il corpo, l’anima e la divinitá; ed io, a quei favori ingratissimo, corrispondea col transfonder l’anima mia dentro gli occhi sacrileghi d’un volto pur troppo idolatrato. Allora sospirerò con lagrime di sangue il pericolo d’avere a perdere per mio conto quelle funzioni del paradiso, che ora troppo malamente attribuisco ad un volto per mia follia beatificante.

[verso il 1640?].

CLXIX

Di fra Giovanni Battista ***, cappuccino

Domanda conto del valore del padre Urbano da Messina, cappuccino,

che predica in Bologna.

Di Modena, xxvi febraro 1640.