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211.Tempo fu giá, che l’occhio ebro si volse
ai chiari raggi del suo vivo Sole.
Per l’occhio entrò la fiamma, il cor l’accolse,
e n’arde ancor, sí ch’ésca altra non vòle.
Allor l’occhio fu lieto, il cor si dolse:
ora gioisce il cor, l’occhio si dole.
Dolgasi pur, ragion ben fia, che quanto
v’entrò foco ed ardor, n’esca acqua e pianto.

212.Porgemi ancor la cecitá speranza
che forse fuor de’ soliti confini
con minor tema e con maggior baldanza
da oggi avante a me tu t’avicini,
e con Dori e Leucothoe in lieta danza
t’udrò talor cantar sovra i delfini,
e ben ch’io viva in tenebre sepolto,
avrá l’orecchio quel ch’a l’occhio è tolto.

213.Anzi tolto non giá, ciò non fia vero:
siami il Ciel quanto vuol crudele ed empio,
armisi pur l’ingiurioso Arciero
a mio sol danno, a mio perpetuo scempio.
Tòr non potran dal cupido pensiero
de la cara beltá l’amato essempio;
né tanto è quel dolor che l’alma attrista,
quant’è il piacer d’averti amata e vista.

214.Vantaggio dunque ogni mio danno io chiamo,
né piú quasi mi cal di luce esterna,
perché quella che tanto io goder bramo
godo assai piú con la veduta interna,
la qual fisa nel Sol, ch’adoro ed amo,
dove dianzi era breve, è fatta eterna,
sol tutta intesa al bel ch’ella desia,
or ch’altro oggetto piú non la desvia.