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99.Ma poi che per lo Ciel la bruna benda,
che vela il dí, la notte umida stese,
e tutta risonar la selva orrenda
d’urli ferini il Giovinetto intese,
qual uom che strane visioni attenda,
tacque, e doppio spavento il cor gli prese.
Non sa dove si vada, o quel che faccia:
d’amor avanipa, e di timore agghiaccia.

100.Giunto ove tra duo colli è piú riposta
la spessura del bosco, e piú profonda,
e versa il monte da la rotta costa
gorgo di pura vena in limpid’onda,
lo sconsolato al fonticel s’accosta,
e ’l fianco adagia in su la fresca sponda.
Quivi abbattuto da la doglia acerba
si fa tetto del Ciel, letto de l’erba.

101.Cosí tra quelle macchie erme ed oscure,
di selvaggi abitanti orride case,
soletto, se non sol de le sue cure,
de’ suoi tormenti in compagnia rimase.
Vinselo alfin pur la stanchezza, e pure
ai languid’occhi il sonno persuase,
e malgrado del duol, poi ch’egli giacque,
addormentossi al mormorar de Tacque.

102.Non prima si svegliò, che mattutino
giá iusse Apollo in su ’l bel carro assiso,
e dato avesse giá del Sol vicino
l’augel nunzio del dí l’ultimo aviso,
del Sol, che ’n oro omai vólto il rubino,
avea mezo da Tonde alzato il viso,
e da la luce sua percosse e sgombre
facea svenir le stelle, e svanir l’ombre.