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senza poter forse nè anche lui conoscer la prima cagione di un così gran male.» Così il Manzoni pigliava non due, ma tre colombi ad una fava; conchiudeva la sua storia in un modo certamente insolito, per quanto sia sembrato umile; alludeva forse ai discorsi che si fecero in Milano intorno alla sua sposa, quando egli la menò dal contado bergamasco in Milano; e dava una sferzata allegra a que’ critici impazienti, che si preparavano a gettare il discredito sul libro prima che venisse pubblicato.

Io potrei ora proseguire questa indagine biografica manzoniana sopra i Promessi Sposi, ma temerei recarvi tedio. Non terminerò tuttavia senza avvertire come l’ottimo commento ai Promessi Sposi si possa fare soltanto a Lecco. Chi voglia ammirare veramente tutta la potenza artistica dell’ingegno manzoniano deve recarsi sopra la scena stessa del romanzo. Non mai si è rivelata meglio la virtù d’uno scrittore a idealeggiare il reale. Quello che il Manzoni aveva fatto degli uomini, lo fece pure de’ luoghi; col suo genio plastico gli espresse, con la sua fantasia poetica li sollevò, col suo proprio sentimento diede loro una tinta calda ed un calore simpatico. Il Manzoni, io l’ho già detto, aveva dovuto con suo grave dolore vendere la propria palazzina detta il Caleotto che sorge presso Lecco (ove il Manzoni possedeva pure alcune terre, come il suo Renzo un orto), in faccia ad Acquate ed al bel Resegone, e sovrasta all’Adda. V’è una leggenda a Lecco, che io vi ripeto come la intesi: secondo essa, dopo la vendita dolorosa de’ beni paterni, il Manzoni non sarebbe più tornato a Lecco, ma a ri-