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che diavolo desiderate? Perchè vi comportate con me come se io fossi un carceriere? Che vi ho fatto io?

— Lei? Niente.

— Chi dunque? Steinegge? Che vi ha fatto Steinegge?

— Paura.

— Come, paura?

— È tanto brutto!

Il conte si rizzò sul suo seggiolone e, impugnandone con violenza i bracciuoli, porse verso sua nipote la fronte corrugata e gli occhi fiammeggianti.

— Oh — diss’egli — se credete farvi gioco di me, la sbagliate: se avete voglia di scherzare, scegliete male il vostro momento. Quando ho la compiacenza di domandarvi cosa vi offende in casa mia, non bisogna mica rispondermi come una cingallegra parigina; bisogna parlare sul serio!

— A che serve se Ella ha risoluto che io parta?

— Chi ha detto questo? Io ho detto che non siamo fatti per vivere assieme e vi ho indicato una possibile occasione di mutar soggiorno e compagnia. E prima di tutto ho dichiarato che dovrete in avvenire essere civile con me e con i miei ospiti onde non costringermi a un pronto provvedimento.

Marina non aveva ancora risposto, quando entrò la Giovanna, tutta commossa.

— Signor padrone, quei signori sono qui!

— Diavolo — esclamò il conte alzandosi, e uscì in fretta.

Marina andò a gittarsi sul seggiolone rimasto vuoto, vi si dondolò con le braccia incrociate, il capo appoggiato alla spalliera, le gambe accavalciate e la punta brillante d’uno stivalettino nero slanciata in aria come una sfida.

Si udivano parecchie voci al piano terreno, o meglio una voce sola, a getto continuo, sonora, colorita, con accompagnamento di altre voci note e ignote, di risa brevi, rispettose.