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atto quarto 53


Polidoro.   Sostienla,

sostienla, o figlia; l’allegrezza estrema
e l’improviso cangiamento al core
gli spirti invola: tosto usa, se l’hai,
alcun sugo vitale; or ben t’adopri.
Quanto ringrazio i dèi che a sí grand’uopo
trassermi e fèr ch’io differir non volli
pur un momento a entrar qua dentro. O quale,
s’io qui non era. empio inaudito atroce
spettacolo!
Ismene.   Son io tanto confusa
fra l’allegrezza e lo stupor, che quasi
non so quel ch’io mi faccia. O mia reina,
torna, fa core; ora è di viver tempo.
Polidoro.   Vedi che giá si muove, or si riscuote
Merope.   Dove, dove son io? sogno? vaneggio?
Ismene.   Né sogni, né vaneggi. Eccoti innanzi
il fedel Polidor che t’assicura
del figlio tuo, non vivo sol, ma sano,
leggiadro, forte e, posso dir, presente.
Merope.   Mi deludete voi? Se’ veramente
tu Polidoro?
Polidoro.   Guarda pur, rimira;
possibile che ancor non mi ravvisi,
se ben di queste faci al dubbio lume?
A te venuto er’io, perché in piú parti
a cercar di Cresfonte e perché insieme...
Merope.   Sí che se’ desso; sí ch’io ti ravviso,
benché invecchiato di molto.
Polidoro.   Ma il tempo
non perdona.
Merope.   E m’accerti ch’è mio figlio
quel giovinetto? E non t’inganni?
Polidoro.   Come
ingannarmi? Pur or lá addietro stando,
del suo sembiante che da quella parte