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46 la merope


Ismene.   Il ciel l’ha abbandonata e ’l fato oppressa.

Adrasto.   Quanto passò taccia una volta e oblii.
Ismene.   Può ben tacere, ma obliar non puote;
che ’l silenzio è in sua man, ma non l’oblio.
Adrasto.   Di sé si dolga chi al peggior s’appiglia.
Ismene.   Nulla è peggio per lei del re crudele.
Adrasto.   Crudel chi le offre onor, gioia e diletto?
Ismene.   Diletto amaro a chi col cor ripugna.
Adrasto.   Perché ripugna a ciò ch’ogn’altra brama?
Ismene.   Ella brama piú tosto e strazio e morte.
Adrasto.   Sí, se non fosse morte altro che un nome.
Ismene.   La virtú di costei tu non conosci.
Adrasto.   Dunque se di virtú cotanto abbonda,
facciasi una virtú conforme al tempo.
Giá per disporsi ella non ha che questa
omai distesa notte; se tu l’ami,
qual mostri, fa che il suo miglior discerna
e che i suoi fidi non esponga a morte.
Pazzo è ’l nocchier che non seconda il vento.

SCENA II

Ismene, poi Egisto.

Ismene.   Deh qual fine avrá mai l’amaro giuoco,

che di quell’infelice la fortuna
si va prendendo? Di veder giá parmi
che siam giunti a quel punto ov’ella omai
contro sé stessa sue minacce adempia,
funestandoci or or col proprio sangue
e gli occhi e ’l core. O lagrimevol sorte!
Egisto.   Deh, se t’arrida il ciel, leggiadra figlia,
dimmi, ti priego: chiude ancor sí atroce
Merope contra me nel cor lo sdegno?
Lungo esser suole in regio cor lo sdegno,