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atto quinto 161


Leandro.   Io son sí attonito,

Sí fuor di me...
Massimo.   In questo modo? In questo
si tratta co’ par nostri? Tradimenti
un sopra l’altro? E in casa mi si viene
a far di queste?
Orazio.   Io ve ne chieggo mille
perdoni, io giuro...
Massimo.   Vi meritereste,
quanti vi siete, non uscir di qua
se non co’ piedi innanzi; ma pur voglio
frenarmi infin che siete in casa mia.
Fuori però, malnati, itene tosto
alla malora; avrò, avrò ben modo
di far pentire quelle triste femmine;
e quanto a Orazio vedrem dimattina
come maneggi la sua spada; per
poco si vanterá di questa burla.
Aurelia.   O questo no, signor zio, troppo onore
gli fareste con questo; si parrebbe
che noi facessim di costor gran conto.
Vadansi pur al diavolo; per me
chi non mi vuol non mi merita. Forse
mi mancheran cento miglior partiti?
Non son io chiesta e ricercata ognora?
Ch’avev’io a far di quel ragazzo malagrazia,
senza creanza e senza sale
in zucca? Nol torrei per servidore.
Dite lo stesso voi di quella frasca
che non ha per tre once di cervello:
non meritava d’avervi. Andiam via.
Massimo.   Son d’accordo, gli è ver; ma c’è l’ingiuria,
la derision, l’inganno.
Aurelia.   O quanto a questo,
se non faranno il lor dovere e in modo
amplissimo, saprem quel che va fatto.