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142 l’argentina e gli italiani

Povero sovrano della prateria! Chi sa che non sarà proprio lui a ricondurmi tra qualche mese — attaccato ad una modesta vettura di piazza — all'imbarco sulle banchine del Porto Madero!



Abbiamo continuato il nostro giro per l'estancia, sotto un sole torrido che accecava e stordiva. Ed ho un ricordo vago di quella corsa per prati senza fine. Rammento delle grandi tettoie presso un boschetto, sotto le quali ingrassano dei buoi colossali e delle pecore che sembrano enormi batuffoli di lana bianca, destinati a figurare in non so quale esposizione di bestiame: e delle scuderie divise in boxes, dai quali sporgono le teste di nobilissimi cavalli inglesi la cui genealogia mi veniva illustrata da un trainer, inglese puro sangue anche lui, che da venti anni è nell'Argentina e non parla spagnuolo. «Non parlo ancora castigliano, not yet» — mi ha detto flemmaticamente.

— Oh! — ho risposto — è questione di tempo!

Rammento un toril dove sultaneggiano dei tori mastodontici venuti dall'Inghilterra, i quali hanno ai loro ordini servi e scudieri; rammento numerose famiglie di struzzi che fuggivano davanti al nostro galoppo, simili a gruppi di piccoli cammelli con due sole gambe.

Dopo sei ore di cavallo ho cominciato ad accorgermi che la sella indigena è deplorevolmente incomoda; che il sole del gennaio sud-americano dà dei punti a quello del nostro agosto; che la pianura sconfinata ha — come il mare — le sue attrattive, ma che qualche gruppo d'alberi — come un po' di terra-