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il passo di montecroce 279


colpi dei fucili nemici così vicini, che per qualche tempo abbiamo creduto che fossero i nostri a sparare.

Dalle feritoie si scorgevano le trincee nemiche, a cinquanta passi. Erano ammonticchiamenti di sassi, ammassamenti di sacchi a terra, e qua e là un grigiore strano di corazzature, del colore plumbeo delle navi da guerra. Gli austriaci hanno due tipi di scudatura di acciaio, uno grande da trincea, uno più piccolo da assalto. Ricorda l’antico schermo degli arcieri, questo scudo rettangolare che si posa al suolo, appoggiato a due montanti, e dietro al quale il soldato si rannicchia, spiando da uno sportellino che si apre e si chiude.

In continua azione di combattimento, le nostre trincee sono sorte e si sono rafforzate, a poco a poco, quasi insensibilmente. Furono monticoli di pietre, poi muricciuoli nascosti da verdura di pino, poi ebbero una copertura di travi di abete — portati su faticosamente dalla foresta — poi sulle travi si ammassarono blindamenti di terra e di sacchi. Il nemico che spiava non ha nemmeno visto una mano. I sassi si spostavano adagio adagio, si allineavano, si sovrapponevano, senza che il loro moto potesse essere percepibile da lontano. Era come se pietre, sacchi, travi, animati per magia, lentamente manovrassero. E il lavoro non finisce mai; si migliora, si amplia, si rinforza, si progredisce, si aprono nuove comunicazioni, tal-