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Capitolo Nono.

Quando Yann salì guardò con gli occhi ancora assonnati il grande e familiare cerchio del mare. Quella notte, esso aveva degli aspetti straordinariamente semplici, con tinte neutre, dando solamente un’impressione di profondità. Quell’orizzonte, che non indicava alcuna regione precisa della terra, nè alcuna età geologica, aveva dovuto essere molte volte così, fin dall’origine dei secoli. Guardandolo sembrava veramente di non veder niente — niente altro che l’eternità delle cose che sono, e che non possono dispensarsi di essere.

Il mare rumoreggiava tranquillamente, come per abitudine, emettendo un lamento monotono, senza scopo. Era grigio, di un grigio torbido, in alto erano delle nuvole che si confondevano, assumendo la forma di un gran velo.

— Yann — a misura che le sue pupille mobili si abituavano a quell’oscurità, guardava sempre più in fondo il cielo, riflesse tristamente nel mare. Ed ora che cominciava a vedere bene, gli sembrava che fosse una vera ombra umana, ingrandita, resa gigantesca a furia di venire da lontano. Poi nella sua immaginazione, dove si alternavano insieme i sogni fanciulleschi e le credenze primitive, quell’ombra triste, in fondo al cielo di tenebre, si confondeva col ricordo dell’amico morto, come un’ultima manifestazione reale di lui. Contemplando quelle nuvole era invaso da una tristezza profonda, piena di mistero, che gli agghiacciava l’anima; mai meglio di allora comprendeva che il suo piccolo amico non sarebbe più ricomparso, e un dolore, acerbissimo gli faceva sanguinare il cuore.

Rivedeva la dolce fisonomia di Silvestro, i suoi buoni occhi di fanciullo; qualche cosa come un velo cadeva tutt’a un tratto tra le sue palpebre, — e non sapeva egli stesso spiegarsi bene che cosa era, non avendo mai pianto