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ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti 91

gustare una felicitá che paia a loro propria, perché il contento umano consiste piú tosto nel parere che nell’essere. E, se a loro pare essere felici, sono, non però sanza ammistione sempre di felicitá, cure amorose. E per questo io giudico che la dolcezza degli amanti sia rara, e qualche volta assai grande, ma le infelicitá loro essere quasi continue, ed il dolore, sanza comparazione, maggiore; conciosiacosaché il dolore è spesso sanza dolcezza, e la dolcezza non mai sanza dolore. E cosí conviene che sia, dove è infinita passione e insaziabile appetito.

     Sí dolcemente la mia donna chiama
morte nelli amorosi suoi sospiri,
ch’accende in mezzo agli aspri miei disiri
un suave disio, che morte brama.
     Questo gentil disio tanto il core ama,
che scaccia e spegne in lui gli altri martíri;
quinci prende vigore e par respiri
l’alma contra sua voglia afflitta e grama.
     Morte dalle dolcissime parole
di mia donna chiamata, giá non chiude
però i begli occhi, anzi sen fa pietosa.
     Cosí mantiensi al mondo il mio bel Sole;
a me la vita mesta e lacrimosa
per contrario disio, che morte esclude.

Perché nel precedente sonetto abbiamo fatto qualche menzione de’ miracoli d’amore, vorrei avere tale facultá, che gli potessi fare credibili appresso di qualunque, come sono certi appresso alli gentilissimi ingegni delli innamorati. E veramente come si può imputare a gran difetto il creder leggermente quelle cose che prima facie paiono impossibili, cosí non mi pare da approvare la oppinione di quelli che non prestono fede ad alcuna cosa, quando ecceda in qualche parte o l’uso comune o l’ordine naturale. Perché spesso si è veduto nascere grandissimi inconvenienti presupponendo una cosa falsa, per parere quasi impossibile, e nondimeno pure essere vera. Ed, oltre questo, come il credere presto pare officio d’uomo leggieri, cosí assolutamente nel non credere dimostra grande presunzione;