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204 iii - rime

lvii

Sonetto fatto a Volterra.


     Se in qualche loco aprico, dolce e bello
trasporta il fatigato corpo e lasso
l’alma, sempre è Amor meco ad ogni passo,
con cui sol del mio mal piango e favello.
     Se in bosco ombroso o in monte alpestro e fello,
veggovi Amor che siede sopra un sasso;
se in una valle o in loco oscuro e basso,
nulla veggo, odo o penso, se non quello.
     Né sa piú il tristo core omai che farsi:
o fuggir ne’ begli occhi alla sua morte,
o ver lontan da quei morir ognora.
     Dice fra sé: — Se un tempo in quegli occhi arsi,
dolce era il mio morir, lieta mia sorte,
onde meglio è che ne’ begli occhi mora. —


lviii

[Amore ritorna sovrano nell’afflitto cuore.]


     — Come ritorni, Amor, entro all’afflitto
cor, che pel tuo partir era tranquillo?
— Io torno nello impresso mio sigillo
fatto nel cor da’ begli occhi trafitto.
     — Lasso, io credevo che fussi prescritto,
tanto è che libertá per suo sortillo.
— Non dir cosí, ché ’l primo stral che aprillo,
gli occhi ché ’l trasson v’han sempre relitto.
     — Ben sentivo io nel cener fatto il core
pel fuoco che l’umor dagli occhi stilla,
un picciol segno dell’antico amore. —
     — Vedrai che quella picciola favilla
in te ecciterá eterno ardore,
colpa e disgrazia della tua pupilla. —