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disse nel fine del Purgatorio, ch’esse sfere celesti, chiamate da lui ruote magne,

Dirizzan ciascun seme a qualche1 fine,
Secondo che le stelle son compagne.

E in questo modo tengo io, ch’elle sieno invocate qui dal Poeta. Il quale, dopo il favore celeste, invoca ancora in suo aiuto il valor suo propio, sotto questo nome d'ingegno. La qual voce espone M.Tullio nel libro De’ fini, parlando delle potenze dell’anima, le quali, amendue insieme, si chiamano per questo nome solo ingegno, e ingegnosi similmente coloro i quali son dotati di queste virtudi. La quale opinione seguitando il Landino, dice lo ingegno esser quel valor dell’animo nostro, con il quale noi appariamo e siamo capaci delle dottrine. E dividendolo in due parti, chiama l’una docilità e acume, e questa è quella con la quale noi ci assottigliamo a investigare e apparare le cose; e l’altra, con la quale noi le ritegnamo, apprensiva. Conoscendo adunque il nostro Poeta, ch’ei non basta nella investigazione delle cose solo il favore e lo influsso celeste, ma ch’ei bisogna ancora l’attitudine e la disposizione buona, invoca e chiede a un tempo medesimo, che gli sia favorevole la virtù celeste, e che lo aiuti a raccontar quello ch’egli vide l’attitudine e la disposizion sua, soggiugnendo oltre a di questo:

O mente che scrivesti quel2 che io vidi;

intendendo per mente, come voi vedeste di sopra, quella parte dell’anima nostra, de la quale egli dice nel Convivio: la mente partecipa della natura divina, a guisa di sempiterna intelligenza. Laonde l’anima è tanto, in essa sovrana potenza, nobilitata e denudata da materia, che la divina luce, come in Angelo, raggia in quella; per la qual cosa è l’uomo divino animale da’ filosofi chiamato. Volgesi adunque il Poeta, non a

  1. Cr. ad alcun.
  2. Cr. ciò.