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gli lasciano la patria onorata e sicura, innanzi alle minaccie dell’islamismo rinvigorito per l’innesto della tartara barbarie, e mentre le fiorenti colonie di Genova cadevano sotto il ferro dei Giannizzeri, o patteggiavano servilmente col Sultano, mentre sovrastavano all’Italia le armi turchesche già romoreggianti nel Friuli e nelle Calabrie, mentre, intercise le consuete vie ai commerci, rincarivano le spezie e gli aromi, e i metalli preziosi incomportabilmente scarseggiavano, Colombo sembra dimenticare i terrori e i dolori della sua patria, sembra tutto rinchiudersi in una speculazione esclusiva: ma il suo pensiero è pur sempre cristiano ed italiano: respingere i barbari, liberar la via delle Indie, trovare alleati potenti contro i Musulmani; quest’è il suo voto, voto ch’egli espresse con religiosa solennità. Udite, o signori, le sue proprie parole, estremo eco del medio evo, trasformazione di nobili pensieri in un nobile cuore: «All’epoca in cui intrapresi di partire per la scoperta delle Indie, dice Colombo nel suo testamento, aveva intenzione di supplicare il Re e la Regina perchè tutto il denaro che si trarrebbe dalle Indie fosse consacrato a Gerusalemme: e di questo poscia li richiesi: se il fanno, meglio; altrimenti ed in ogni caso, mio figlio Diego o qualunque fosse suo erede dovrà raccogliere tutto il danaro di mia ragione per accompagnare il Re se andasse al conquisto di Gerusalemme; o almeno per tentare egli stesso l’impresa con tutte le forze che gli riuscisse di mettere insieme».

Sarebbe puerile tessere, a modo di panegirico, una difesa di Cristoforo Colombo: nè io mi proposi di lodarlo, ma sibbene cercai di comprenderlo. Perciò non voglio negare ch’ei patteggiasse i titoli di Don, di Vicerè e di Almirante, e li volesse ereditarii, e ansio-