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D’ISABELLA ANDREINI. 137

rivolto à quella bellissima chioma, che per colpa di maligna febre fu da crudelissimo ferro tagliata, più che mai lagrimando misero dico. O bei capegli, che ’n dolce, e santo nodo mi legaste al mio carissimo mezo, se mentre adornaste quel capo, che ’n vostra compagnia haveva per ornamento, ancor la prudenza foste testimoni de’ miei piaceri, hora da lui divisi, sarete testimoni de’ miei dolori. O bei capegli, com’esser può, che privi di quella bella, e serena fronte ancor serbiate la bellezza, e lo splendore? com’esser può, che sciolti possiate ancor legarmi? ma che? anche i begli occhi son fredda cenere nel sepolcro, & ardente fuoco nel mio cuore; ma dite capegli ingrati à colei, che fu vostra, e mia donna, perche vi divideste da lei? forse per non soggiacer alla morte? ò folli se pensate lunge da lei, che fu vostra, e mia vita, haver vita giamai. Ahi falsi amici, perche non seguiste in morte colei, che tanto vi terse, e v’accarezzò in vita? perche negaste di chiudervi seco nel sepolcro? già non negano i raggi del Sole di tuffarsi nel Mare quand’egli vi s’immerge; & ingannato dal mio fisso pensiero, come se i capegli havessero senso, e voce, mi par d’udire, che così mi rispondono. O caro amico, perche così m’offendi? non ti sovviene, che per lasciar libera la nostra commune Signora, da quel rio morbo, che l’affliggeva, cedemmo al ferro? e che bisognò sforzatamente partire? hor noi non potendo lasciar altro segno della nostra fedeltà, malgrado di chi ne recise, lasciammo le nostre radici in quel bel capo, onde puoi vedere ch’è intervenuto à


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