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e disutile, e morto senza fama», come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser «nato alle opere virtuose e alla gloria». Questa gloria, che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei grandi infelici, che tanto più saran grandi quanto più sentiranno la loro infelicità, e più quindi saranno infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli riecheggia la lode stessa, che il grande tributa egli alla propria grandezza nella coscienza felice del suo genio. La sua sostanza è veramente in questa lode interna e soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde il genio vede illuminata la propria opera. Il Leopardi, nudrito la mente dei concetti classici e delle idee materialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà di questa gloria, in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte le miserie, in quell’eco esterna, in quel consenso che in fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E perciò si trova in faccia al problema del valore tuttavia superstite della grandezza spirituale, veduto in questa forma: l’anima grande e infelice è destinata essa alla gloria? o la sua speranza è fallace, come tutte quelle che ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze?1 Ed ecco il Parini, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel mondo presente agli occhi del Leopardi, da farla apparire meta inattingibile. Onde vien meno anche questa aspettazione, e al grande non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga, con animo forte, adoprandosi nella

  1. Dove, nel 1829, canterà:

    O speranze, speranze; ameni inganni
    Dalla mia prima età! sempre, parlando
    Ritorno a voi; che per andar di tempo,
    Per variar d’affetti e di pensieri,
    Obliarvi non so. Fantasmi, intendo,
    Son la gloria e l’onor; diletti e beni
    Mero desio; non ha la vita un frutto.
    Inutile miseria.