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Capitolo V.


Lord Wylmore.


Non si trattava di una vera scialuppa o baleniera, bensì d’uno di quei canotti indiani fabbricati con arte impareggiabile, di larghe scorze di betulla montate su un leggerissimo scheletro e maestrevolmente impeciate colla resina dei grandi pini.

Tali barche, usate da tutte le tribù indiane del nord, sono così maneggevoli, che si possono condurre fino sull’orlo delle rapide senza che l’abisso turbinoso le inghiotta.

Certo, ci vogliono quei rematori insuperabili i quali, invece di servirsi dei lunghi remi della marina, usano corte pale molto larghe e che non hanno più di due metri di lunghezza.

Le affondano recisamente, anche quasi nelle gole delle cateratte, ed adoperano una trazione così violenta, da eguagliare quella formidabile dell’elica.

I due misteriosi cacciatori, vecchi cacciatori certamente, che sapevano percorrere i fiumi, abitati da grosse bestie acquatiche, avevano messo dinanzi al canotto, a due metri dalla prora, una specie di scudo quadrato formato d’un pezzo di corteccia di betulla, dinanzi al quale avevano piantato una torcia d’ocote dalla fiamma vivissima e brillantissima quanto quella d’una moderna lampada ad acetilene.

I cigni colpiti, o meglio acciecati da quella luce che serpeggiava e scintillava fra le acque turbinanti della riviera, non potendo scorgere i cacciatori nascosti dietro allo scudo, si lasciavano ammazzare tranquillamente, mentre il giorno è difficile che si lascino prendere.

Hanno il volo pesantissimo, ma sono così sospettosi, che è quasi un caso che un destro cacciatore possa colpirne uno, nemmeno in una mattinata nebbiosa.

Invece, cacciati di notte, col sistema indiano, si lasciano prendere