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DELLA FAMA CAP III. 313

Dopo venia Demostene che fori
     È di speranza omai del primo loco,
     Non ben contento de’ secondi onori;
Un gran folgór parea tutto di foco:
     Eschine il dica che ’l poteo sentire
     Quando presso al suo tuon parve già fioco.
Io non posso per ordine ridire
     Questo o quel dove mi vedessi o quando,
     E qual andare inanzi e qual seguire;
Ché, cose innumerabili pensando
     E mirando la turba tale e tanta,
     1’occhio e ’l pensier m’andava disviando.
Vidi Solon, di cui fu l’util pianta
     Che, se mal colta è, mal frutto produce,
     Cogli altri sei di che Grecia si vanta.
Qui vid’io nostra gente aver per duce
     Varrone, il terzo gran lume romano,
     Che quando il miri più tanto più luce;
Crispo Sallustio, e seco a mano a mano
     Un che già l’ebbe a schifo e ’l vide torto,
     Cioè ’l gran Tito Livio padovano.
Mentr’io ’l mirava, subito ebbi scorto
     Quel Plinio veronese suo vicino,
     A scriver molto, a morir poco accorto.
Poi vidi il gran platonico Plotino,
     Che, credendosi in ozio viver salvo,
     Prevento fu dal suo fero destino,
Il qual seco venia dal materno alvo,
     E però providenzia ivi non valse;
     Poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba, e Calvo
Con Pollïon, che ’n tal superbia salse,
     Che contra quel d’Arpino armar le lingue
     Cercando ambeduo fame indegne e false.
Tucidide vid’io, che ben distingue
     I tempi e ’luoghi e l’opere leggiadre
     E di che sangue qual campo s’impingue;