Pagina:Le mille ed una notti, 1852, VII-VIII.djvu/313


295


annunzio ed i medesimi preparativi dell’altra volta. Si eressero le mense al pari del patibolo, i grandi si ragunarono, il popolo si pose in ordine, ed il re sedette sul trono: quand’ecco comparire uno straniero che ignorava la legge del paese, ed accintosi a mangiare, s’impadroniva d’un piatto lontano. Preso e condotto al re, gli volse questi le medesime interrogazioni dirette ai primi trasgressori della legge. — Il mio nome è Resini,» rispose il forastiero, «e sono un povero dervis. — Mi si porti la tavola di romla e la penna d’acciaio,» disse il re, e fu obbedito. Smeraldina alzò la testa, rimase alcuni istanti in silenzio, e disse: — Menti, cane, il tuo nome è Rescideddin; professi esteriormente l’islamismo, ma in fondo al cuore sei cristiano: confessa la verità o ti fo balzare il capo.» Era in fatti Rescideddin. Dopo la fuga della schiava, postosi in via, come il ladrone, per andarne in cerca, il caso l’avea condotto in quella città. Il reo, pieno di terrore, confessò il vero, e la sua pelle fu attaccata accanto a quella degli altri avventurieri. Ripostisi a tavola, si mangiò con nuovo appetito, vantando la sapienza e la giustizia del re. Smeraldina sola non prendea parte alcuna alla gioia generale, versando copiose lagrime al pensare al suo diletto Alisciar: compose in pari tempo versi pateticissimi, ne’ quali esprimeva il dolor suo, e domandava al cielo l’adempimento delle proprie speranze. — Mio Dio! o tu,» sclamava, «che rendesti a Giuseppe l’oggetto della sua tenerezza, deh! rendi a me pure il mio diletto Alisciar. Ascolta la mia preghiera, Dio onnipotente, sovrano signore dell’universo, tu che fai succedere la gioia all’afflizione, come alla notte il giorno! —

«Smeraldina, non aveva ancora finita quella preghiera, il primo giorno del quinto mese, in cui il popolo era già ragunato per la solita festa, quand’ecco presentarsi all’ingresso dell’anfiteatro un giovane