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ma.» Il comandante uscì, e finse d’andar ad eseguire l’ordine ricevuto.

«Naama si ritirò in casa del padre, in preda al dolore e ad una violenta disperazione; benchè avesse soltanto quattordici anni, e fosse ancora imberbe, pure la vita gli sembrò insopportabile; piangeva amaramente, e non voleva più vedere i luoghi che gli rammentavano tempi troppo felici.

«Sua madre, vivamente afflitta del di lui stato, passò l’intiera notte a piangere e sospirare con lui. Il padre cercava invano di consolarlo, dicendogli che, secondo le apparenze, era il governatore il quale aveva fatto rapire la schiava, e che forse potrebbe in breve ricuperarla. Il giovane, insensibile a tutto, era incapace di gustare alcuna consolazione, ed il suo dolore accrebbe al punto che la ragione gli si turbò; non sapeva più cosa facesse, e non conosceva più quelli che venivano in casa. Languì in questo stato per più di tre mesi. Rabia fece inutilmente venire i più abili medici; tutti furono d’accordo nel dire che la sola presenza della bella schiava era capace di salvarlo.

«Un giorno che Rabia, sempre più inquieto sullo stato del figliuolo, disperava quasi della sua vita, intese parlare d’un famoso medico persiano, dotto astrologo, giunto allora a Kufa, e pregò la moglie di farlo venire. — Forse,» le disse, «questo medico troverà qualche mezzo per salvar nostro figlio.» Mandamno tosto a cercarlo, e quando fu entrato, Rabia lo fece sedere vicino al letto dell’infermo, e lo pregò di visitarlo.

«Il medico persiano prese la mano del giovane, ne toccò le membra l’un dopo l’altro, ed avendo attentamente guardati i lineamenti del volto, si pose a ridere, e disse al padre: — La malattia di vostro figlio ha sede nel cuore. — Avete ragione,» disse