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In fine, stato alcun tempo disteso sul luogo, non vedendo più elefanti, mi alzai, e scorsi che mi trovava sur una collina lunga e larga, tutta coperta d’ossa e di denti d’elefante. Vi confesso che tal vista mi fece fare un’infinità di riflessioni. Ammirava l’istinto di quegli animali, non dubitando non fosse quello il loro cimitero, e che mi avessero colà portato espressamente per insegnarmelo, acciò cessassi dal perseguitarli, poichè io lo faceva all’unico scopo di averne le sanne. Non mi fermai sulla collina, ma volsi i passi verso la città, e camminando tutto un giorno ed una notte, giunsi dal mio padrone, senza aver incontrato per istrada verun elefante; lo che mi fece conoscere essersi quegli animali allontanati, internandosi nella foresta, per lasciarmi in libertà d’andare senza ostacolo alla collina.

«Appena il mio padrone mi vide: — Ah, povero Sindbad!» sclamò; «io era ansioso di sapere cosa fosse avvenuto di te. Recatomi alla selva, vi trovai un albero sradicato di fresco, un arco e frecce per terra; e dopo averti inutilmente cercato, disperava di mai più rivederti. Raccontami, ti prego, che cosa ti è accaduto. Per qual ventura sei tu ancora in vita?» Soddisfeci alla sua curiosità, e l’indomani, andati amendue alla collina, riconobbe egli, con estremo giubilo, la verità de’ miei detti; caricammo l’elefante, sul quale eravamo venuti, di quanti denti poteva portare, e quando fummo di ritorno: — Fratello,» mi disse, «(giacchè non voglio più trattarvi da schiavo, dopo il piacere procuratomi mediante una scoperta che deve arricchirmi) che Dio vi ricolmi d’ogni sorta di beni e di prosperità! Io dichiaro a lui dinanzi di lasciarvi libero. Vi aveva dissimulato ciò che son per dirvi: gli elefanti della nostra selva ci fanno perire ogni anno un’infinità di schiavi, che mandiamo a cercarvi l’avorio. Per quanto

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