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volgemmo i passi. Era un palazzo ben costrutto ed altissimo, con una porta d’ebano a due battenti, che, sospingendola, aprimmo. Entrati nel cortile, vedemmo in faccia un ampio appartamento con vestibolo, ov’era da un lato un mucchio d’ossa umane, e dall’altro un’infinità di schídioni. A quello spettacolo c’invase un tremito generale, ed essendo stanchi del fatto cammino, ci mancarono le gambe, e cademmo per terra, colti da mortale spavento; restammo in quello stato per molto tempo.

«Il sole tramontava, e mentre noi trovavamo nel compassionevole stato or descritto, si spalancò con fracasso la porta dell’appartamento, e subito vedemmo uscirne un uomo nero d’orrendo aspetto, e dell’altezza d’un gran palmizio. Aveva in mezzo alla fronte un solo occhio, rosso ed ardente come carbone acceso; i denti davanti, che aveva lunghi ed aguzzi, gli uscivano dalla bocca, la quale era fessa come quella d’un cavallo; il labbro inferiore gli scendeva sul petto. Rassomigliavano le orecchie a quelle dell’elefante, e gli coprivano le spalle; aveva unghie adunche e lunghe come gli artigli del più mostruoso uccello. Alla vista di sì spaventoso gigante, perduti i sensi, restammo come morti.

«Alla fine, rinvenuti, lo vedemmo seduto sotto il vestibolo, che ci esaminava coll’occhio spalancato; quando ci ebbe ben considerati, si avanzò verso di noi, ed avvicinatosi, stese la mano su me, mi prese per la nuca, e mi volse da tutti i lati, come un beccaio che maneggi la testa d’un castrato. Dopo avermi guardato minutamente, vedendomi sì magro, ch’era tutta pelle ed ossa, mi lasciò. Prese poi gli altri ad uno ad uno, li esaminò nella stessa guisa, ed essendo il capitano il più grasso dell’equipaggio, lo tenne in mano com’io avrei tenuto un passero, e gli passò uno schidione nel corpo. Acceso indi un gran fuoco, lo