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delicatezza possibile la gamba malata, e trasportarla lentissimamente nella guisa che occorreva. Talvolta per fare il più piccolo passaggio da una posizione all’altra, ci volevano quarti d’ora di spasimo.

Sanguisughe, fontanelle, pietre caustiche, fomenti ora asciutti, or umidi, tutto fu tentato dal medico. Erano accrescimenti di strazio, e niente più. Dopo i bruciamenti colle pietre si formava la suppurazione. Quel tumore era tutto piaghe; ma non mai diminuiva, non mai lo sfogo delle piaghe recava alcun lenimento al dolore.

Maroncelli era mille volte più infelice di me; nondimeno, oh quanto io pativa con lui! Le cure d’infermiere mi erano dolci, perchè usate a sì degno amico. Ma vederlo così deperire, fra sì lunghi, atroci tormenti, e non potergli recar salute! E presagire che quel ginocchio non sarebbe mai più risanato! E scorgere che l’infermo tenea più verisimile la morte che la guarigione! E doverlo continuamente ammirare pel suo coraggio e per la sua serenità! ah, ciò m’angosciava in modo indicibile!