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sieri sulla tavola studiando il fondo del mio cuore, e procacciando di migliorarlo, a gustare le dolcezze d’una melanconia innocente, mille volte preferibili ad immagini liete ed inique.

Tutte le volte che Tremerello entrava nel mio carcere mi diceva: — Non ho ancor risposta. — Va bene, rispondeva io.

Il terzo giorno mi disse: — Il signor N.N. è mezzo ammalato.

— Che ha?

— Non lo dice, ma è sempre steso sul letto, non mangia, non bee, ed è di mal umore.

Mi commossi, pensando ch’egli pativa e non aveva alcuno che lo confortasse.

Mi sfuggì dalle labbra, o piuttosto dal cuore: — Gli scriverò due righe.

— Le porterò stassera, disse Tremerello; e se ne andò.

Io era alquanto imbarazzato, mettendomi al tavolino. — Fo io bene a ripigliare il carteggio? Non benediceva io dianzi la solitudine come un tesoro riacquistato? Che incostanza è dunque la mia! — Eppure quell’infelice non mangia, non bee; sicuramente è ammalato. È questo il momento d’abbandonarlo? L’ultimo mio viglietto