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334 le confessioni d’un ottuagenario.

rifocillarmi lo stomaco e prepararlo alla visita della sera. — Per carità! cos’era mai un soldo di pane per uno che non avea toccato cibo da ventiquattr’ore! — Rifeci il conto; due soldi di pane, uno di cacio pecorino, e il solito di racagna. — Poi trovai che quel soldo di cacio era un pregiudizio, un’idea aristocratica per dividere il pranzo in pane ed in companatico. Era meglio addirittura far tre soldi di pane.

E infatti entrai coraggiosamente da un fornajo; comperai il pane e in quattro morsicate fu messo a posto. M’accorsi con qualche sgomento di non sentire una lontana ombra di sete, per cui facendo un torto alla racagna, mi provvidi d’un ultimo panetto e lo misi accanto agli altri. Dopo questo piccolo trattenimento i miei denti restavano ancora molto inquieti, e razzolando le briciole che si erano fuorviate, andavano fra loro dicendo con uno scricchiolio di costernazione: — Che sia finita la festa? — È proprio finita! — risposi io, e si che mi sentiva lo stomaco ancor più spaventato dei denti. — Allora mi presi un lecito trastullo d’immaginazione, che m’avea servito anche molti giorni prima per ingannar l’appetito: feci la rassegna dei miei amici cui avrei potuto chiedere da pranzo, se fossero stati a Milano. L’abate Parini, morto da sei anni e leggero di pranzo anche lui; Lucilio partito per l'estero: Ugo Foscolo professore d’eloquenza a Pavia; de’ miei antichi conoscenti non ne trovava uno: la padrona di casa, dandomi la sera prima la patina, aveva uncinato un certo suo nasaccio che voleva dire: — state indietro con questi brutti scherzi!

Rimaneva il colonnello Giorgi; ma vi confesso che mi vergognava: come anche dubito che mi sarei vergognato di tutti gli altri se fossero stati a Milano, e che sarei morto di fame piuttosto che farmi pagare un caffè e panna da Ugo Foscolo. Ad ogni modo era sempre una consolazione