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42 le confessioni d’un ottuagenario.

non conosceva più nè amici nè nemici; correva qua e là, dava dei gomiti nello stomaco a Martino, pestava i piedi a monsignore, scannava anitre e sbudellava capponi: e il suo affaccendamento non era superato che da quello del girarrosto, il quale strideva e sudava olio per tutte le carrucole, nel dover menar attorno quattro o cinque spedate di lepri e di selvaggina. S’imbandivano mense nella sala e in due tre camere contigue; e s’accendeva il gran focolare della galleria, il quale era tanto grande che a saziarlo per una volta tanto non si richiedeva meno d’un mezzo passo di legna. Si noti per altro che dopo la prima vampata la comitiva doveva rifugiarsi dietro la parete più lontana e nei cantoni per non rimanerne abbrustolita. Lo scalpore più indiavolato era fatto da questi signori; ma le parti di spirito erano in tali circostanze affidate a qualche dottorino, a qualche abatucolo, o a qualche poeta di Portogruaro che non mancava mai di accorrere all’odor della sagra. In fin di tavola si usava improvvisare qualche sonetto, di cui forse il poeta aveva a casa lo scartafaccio e le correzioni. Ma se la memoria gli falliva non mancava mai la solita chiusa di ringraziamenti e di scuse per la libertà che la compagnia s’era permessa, di correre in fretta a bere il vino e a lodar i meriti infiniti del conte e della contessa. Quello che più di sovente cascava in questa necessità, era un avvocato lindo e incipriato, che nella sua gioventù avea fatto la corte a molte dame veneziane, e viveva allora di memorie e di cavilli in compagnia della massaia. Un altro giovinastro chiamato Giulio Delponte che capitava sempre insieme con lui e si piccava di misurar versi più pel sottile, si godeva di fargli perder la bussola empiendogli troppo sovente il bicchiere. La commedia finiva in cucina con grandi risate alle spalle del dottore, e il giovinotto che era stato a Padova se ne intendeva tanto bene, che gli restava in grazia meglio di prima. Costui e un giovine