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capitolo decimo. 495

per gettar via la testa dalla maraviglia, ma ebbi il buon senso di tenermela per capire il resto. Figuratevi chi era giunto a Venezia?... Mio padre! nientemeno che mio padre!... Ma doveva crederlo?... Un uomo che si credeva morto, che non si era fatto vedere per venticinque anni! La ragione quasi si rifiutava, ma il cuore avido d’amare diceva di sì, e già egli volava sulla via di Venezia che non era giunto al fine della lettera. Gli è vero che a leggerla tutta credo d’avervi impiegato una mezza giornata, e poi durante il viaggio la riscorreva ogni tanto, per paura di aver frainteso e di essermi lusingato indarno. Consegnata la cancelleria a quel buon capo di Fulgenzio, io partii il giorno stesso. Aveva il cuore che non voleva star cheto; e nel cervello poi mi sobbollivano tante speranze condite di memorie, di passioni, di desiderii, d’impossibile, che non ebbi più pace. La contessa mi ammoniva di prepararmi a riprendere nella società il posto concesso ad un rappresentante del patrizio casato degli Altoviti; aggiungeva che mio padre non scriveva lui perchè avea disimparato l’alfabeto italiano, che smontassi intanto presso di lei non più in casa Frumier, ma in casa Perabini in Cannaregio, e finiva col mandare al diletto nipote i baci suoi e della cugina Pisana. Mio padre e la Pisana mi stavano sul cuore assai più della zia.



fine del volume primo.