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capitolo decimo. 485

stento io riconobbi per quella della contessa vecchia — ascolta, Carlino: giacchè non ho prete voglio confessarmi a te. Sappi... dunque... sappi che la mia volontà non ha mai consentito a male alcuno... che ho fatto tutto, tutto il bene che ho potuto... che ho amato i miei figliuoli, le mie nipoti, i miei parenti... che ho beneficato il prossimo... che ho sperato in Dio... Ed ora ho cent’anni; cent’anni, Carlino! cosa mi serve aver vissuto un secolo?... Ora ho cent’anni, Carlino, e muojo nella solitudine, nel dolore, nella disperazione!... —

Io tremai tutto da capo a fondo; e sviscerando coll’occhio della pietà tutti i misteri di quell’anima ravvivata soltanto per sentire il terror della morte.

— Signora, — gridai — signora, non crede ella in Dio?... —

— Gli ho creduto finora; — mi rispose con voce che s’andava spegnendo. E indovinai da quelle parole un sorriso senza speranza. Allora non udendola più moversi nè respirare, avanzai fino alla sponda del letto, e toccai rabbrividendo un braccio già aggranchito dalla morte. Fu un momento che mi parve di vederla; mi parve di vederla, benchè le tenebre si affollassero sempre più in quella stanza funeraria, e sentii le punte avvelenate de’ suoi ultimi sguardi figgermisi in cuore senza misericordia, e quasi mi sembrò che l’anima sua abbandonando l’antico compagno mi soffiasse in volto una maledizione. Maledetta questa vita lusinghiera e fugace che ci mena a diporto per golfi ameni e incantevoli, e ci avventa poi naufraghi disperati contro uno scoglio!... Maledetta l’aria che ci accarezza giovani, adulti e decrepiti, per soffocarci moribondi!... Maledetta la famiglia che ci vezzeggia, che ne circonda lieti e felici, e si sparpaglia qua e là e ci abbandona negli istanti supremi e nella solitudine della disperazione! Maledetta la pace che finisce coll’angoscia, la fede che si volge in bestemmia,