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capitolo decimo. 463

un giorno la notizia che un generale giovane e affatto nuovo doveva capitanare l’esercito francese dell’Alpi, un certo Napoleone Bonaparte.

— Napoleone! che razza di nome è? — chiese il cappellano — certo costui sarà un qualche scismatico.

— Sarà un di quei nomi che vennero di moda da poco a Parigi; — rispose il capitano. — Di quei nomi che somigliano a quelli del signor Antonio Provedoni, come per esempio Bruto, Alcibiade, Milziade, Cimone; tutti nomi di dannati che manderanno, spero, in tanta malora coloro che li portano.

— Bonaparte! Bonaparte! — mormorava monsignor Orlando. — Sembrerebbe quasi un cognome dei nostri!

— Eh! c’intendiamo! Mascherate, mascherate, tutte mascherate! — soggiunse il capitano. — Avranno fatto per imbonir noi a buttare avanti quel cognome; oppure quei gran generaloni si vergognano di dover fare una sì trista figura e hanno preso un nome finto, un nome che nessuno conosce perchè la mala voce sia per lui. È così! è così certamente. È una scappatoia della vergogna!... Napoleone Bonaparte!... Ci si sente entro l’artifizio soltanto a pronunciarlo, perchè già niente è più difficile d’immaginar un nome ed un cognome che suonino naturali. Per esempio avessero detto Giorgio Sandracca, ovvero sia Giacomo Andreini, o Carlo Altoviti, tutti nomi facili e di forma consueta; nossignori, sono incappati in quel Napoleone Bonaparte che fa proprio vedere la frode! —

Si decise adunque al castello di Fratta che il generale Bonaparte era un essere immaginario, una copertina di qualche vecchio capitano che non volea disonorarsi in guerre disperate di vittoria, un nome vano immaginato dal Direttorio a lusinga delle orecchie italiane. Ma due mesi dopo quell’essere immaginario, dopo vinte quattro battaglie, e costretto a chieder pace il re di Sardegna, entrava in Mi-