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426 le confessioni d’un ottuagenario.

parve che gli avessero riferito di me cose non troppo onorevoli; e in seguito venni a sapere com’egli mi credeva venduto anima e corpo al padre Pendola. Ma l’ingenuità della mia confessione l’aveva rimosso da questo avventato giudizio; senzachè la mia giovinezza lo lusingava che non fossi tanto incallito nell’impostura, come pretendevano. Ad ogni modo imbarcato ch’io fui col mio fardelletto sulla corriera di Portogruaro, la mia mente ebbe di che lavorare a riandare il colloquio avuto con Lucilio; soprattutto l’autorità che era nelle sue parole, e nel suo contegno mi parea più strana ancora che mirabile. Un semplice medico, un giovane paesano da poco trapiantato a Venezia parlava e sentenziava a quel modo! Ergersi per poco ad arbitro dei destini d’una repubblica, se non ad arbitro, a giudice e a profeta... la mi sapeva un po’ di commedia! Che fossi rimasto corbellato? Che la mia inesperienza gli avesse offerto un’occasione di burlarsi saporitamente di me? Quasi quasi mi rimordeva di avere abbandonato Amilcare a sì manchevole malleveria; ed è vero che nulla più avrei forse potuto tentare per lui, ma dubitava fra me che quella troppo facile confidenza fosse effetto di poco animo e di infingardaggine. Mi riconfortava poi col pensiero che Lucilio non era mai stato uno spaccamonti, e che per ingegno e per istudio soprastava tanto agli altri uomini, da darmi il diritto di crederlo superiore ad essi di antivedere e di potenza. Che egli fosse secretamente addetto alla Legazione francese, lo avea udito mormorare anche a Portogruaro l’autunno passato, e allora alcune sue parole m’avevano riconfermato la verità di questa diceria. Tali relazioni forse lo ponevano in grado di poter sapere e vedere nelle cose più addentro degli altri; e in fin dei conti poi io non ci trovava una causa per cui dovesse egli divertirsi a gabbarsi di me.

Queste considerazioni, unite al rispetto istintivo che nutriva per Lucilio, e alla nessuna lusinga che poteva avere di