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420 le confessioni d’un ottuagenario.

in una locanda corsi al palazzo Frumier. Dio mio! come trovai cambiata in quei pochi anni la signora contessa! La era divenuta più scura, più cattiva di fisonomia; il naso le si era uncinato come ad uno sparviere, e gli occhi lampeggiavano di un certo fuoco verdognolo che non augurava nulla di buono, e nel vestire mostrava una trascuranza quasi schifosa. Non avea più nè nastri rosei, nè merli alla cuffia; e i capelli grigi le ingombravano spettinati la fronte e le tempie. Perciò, lo confesso, neppure la pietà di Amilcare potè indurmi a tentar qualche cosa da quella parte. M’infinsi venuto a Venezia per ossequiarla e credetti avere addotto un’ottima scusa per riescirle gradito; ma ella mi rispose un grazie così sgarbato che mi fece calare ogni forza giù dei ginocchi, e mi tolsi da quella stanza che non vedea l’ora di essere in istrada. Peraltro uscito che fui nell’anticamera mi si rifece il cuore, e mi tornò il desiderio di vedere la contessina Clara e confidarmi con lei. Mentre appunto mi volgeva in cerca d’un servo che mi conducesse da lei, ecco venirmi incontro ella stessa che avea saputo del mio arrivo, e non volea lasciarmi partire senza un saluto. Tanta cortesia mi commosse e mi diede animo. La povera contessina era tal quale l’avea veduta l’ultima volta; più pallida, peraltro, più grave, e con due cerchi rossi intorno agli occhi che dinotavano l’abitudine del pianto o di lunghissime veglie. Ma questi segni di dolore anzichè togliere alla confidenza, vi aggiungevano l’incentivo della compassione. Mi apersi dunque con lei narrandole del mio amico, ed esponendole il desiderio ch’io aveva di sapere almeno perchè lo si sostenesse in prigione, e quando c’era speranza che lo lasciassero. La contessina si turbò alquanto udendo il caso di Amilcare, e più la causa probabile del suo imprigionamento; e due o tre volte fu per suggerirmi qualche spediente; ma poi la si tratteneva sospirandoci sopra. Finalmente lo spettacolo del