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capitolo nono. 417

Pisana mi pareva una creatura piccina piccina, quasi veduta in una valle dalla sommità azzurrina e pura d’una montagna; più spesso la mi usciva di mente affatto, poichè il mio cuore avea trovato cosa amare in vece di lei. Peraltro, rimasto che fossi solo, avveniva nell’animo mio quasi una separazione di due elementi diversi, che mescolati violentemente insieme ne componevano per poco un solo; ma poi lasciati sedare tornavano a dividersi ciascuno dal proprio canto. La fede nella virtù, nella scienza, nella libertà sorgeva pura ed ardente a cantare inni di speranza e di gioia; la memoria della Pisana si ritraeva in un angolo a brontolare e a stizzirsi in segreto. Allora io mi dava attorno per confondere ancora quei sentimenti; m’incaloriva artifiziosamente e mi arrapinava tanto, che le più volte vi riesciva. Ma perchè ciò avvenisse spontaneamente m’era proprio di mestieri la compagnia e l’esempio di Amilcare. Intanto il romore delle armi francesi cresceva alle porte d’Italia; con esse risonavano grandi promesse di uguaglianza, di libertà; si evocavano gli spettri della repubblica romana; i giovani si tagliavano la coda per imitar Bruto nella pettinatura; per ogni dove era un fremito di speranza, che rispondeva a quelle lusinghe sempre più vicine e vittoriose. Amilcare mi pareva pazzo; gesticolava, gridava, predicava nei crocchi più turbolenti, sui caffè e per le piazze. L’avvocato Ormenta diventava sempre più livido e imbronciato; io credo che fosse arrabbiato anche colla marchesa che non si decideva mai a morire. Io bel bello, nelle rade visite, mi prendeva beffe di lui. Un giorno egli mi parlò con un certo sapore amaro della mia amicizia con un giovine trevisano, e mi avvertì quasi beffardamente che se gli voleva bene doveva ammonirlo di essere meno corrivo a sussurrare nelle sue parlate. La sera stessa Amilcare, con parecchi altri scolari fu imprigionato e condotto a Venezia d’ordine degli eccellentissimi inquisitori; a me credo si sparagnò

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