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6 le confessioni d’un ottuagenario.

del luogo avvezzi a veder colpito solamente il campanile, si erano accostumati a crederlo una specie di parafulmine, e così volentieri lo abbandonavano all’ira celeste, purchè ne andassero salve le tettoie dei granai e la gran cappa del camino di cucina.

Ma eccoci giunti ad un punto che richiederebbe di per sè un’assai lunga descrizione. Bastivi il dire che per me che non ho veduto nè il colosso di Rodi nè le piramidi d’Egitto, la cucina di Fratta ed il suo focolare sono i monumenti più solenni che abbiano mai gravato la superficie della terra. Il Duomo di Milano e il tempio di S. Pietro son qualche cosa, ma non hanno di gran lunga l’uguale impronta di grandezza e di solidità: un che di simile non mi ricorda averlo veduto altro che nella Mole Adriana; benchè mutata in Castel Sant’Angelo la sembri ora di molto impiccolita. La cucina di Fratta era un vasto locale, d’un indefinito numero di lati molto diversi in grandezza, il quale s’alzava verso il cielo come una cupola e si sprofondava dentro terra più d’una voragine; oscuro anzi nero d’una fuliggine secolare, sulla quale splendevano come tanti occhioni diabolici i fondi delle cazzeruole, delle leccarde, e delle guastade appese ai loro chiodi; ingombro per tutti i sensi da enormi credenze, da armadi colossali, da tavole sterminate; e solcato in ogni ora del giorno e della notte da una quantità incognita di gatti bigi e neri, che gli davano figura d’un laboratorio di streghe. — Tuttociò per la cucina. — Ma nel canto più buio e profondo di essa apriva le sue fauci un antro acherontico, una caverna ancor più tetra e spaventosa, dove le tenebre erano rotte dal crepitante rosseggiar dei tizzoni, e da due verdastre finestrelle imprigionate da una doppia inferriata. Là un fumo denso e vorticoso, là un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte, là sedente in giro sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di figure gravi, arcigne e sonnolenti.