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capitolo sesto. 301

questo dubbio che adesso mi avvilirebbe, allora non mi passava nemmeno pel capo. Bisogna aver vissuto, e filosofeggiato a lungo per imparare a dovere la scienza di tormentarsi squisitamente.

La contessa benchè lievemente indisposta migliorava assai a rilento. Era così piena di scrupoli e di smorfie, che non bastavano l’eloquenza italiana e latina del dottor Sperandio; la pazienza di Lucilio, i conforti di monsignor di Sant’Andrea, le cure del marito e della Clara, e quattro pozioni al giorno, per calmarla un poco. Soltanto un giorno che le fu annunziata la visita della cognata Frumier, si riebbe subitamente e dimenticò l’infinita caterva de’ suoi mali per pettinarsi, pulirsi, mettersi in capo la più bella e rosea cuffietta della sua guardaroba, e farsi addobbare il letto con cuscini e coperte orlate di merlo. Da quel momento la sua convalescenza fu assicurata, e si potè cantare un Te deum nella cappella per la ricuperata salute dell’eccellentissima padrona. Monsignor Orlando cantò quel Te deum con tutta l’effusione del cuore, perchè non si aveva mangiato mai così male a Fratta, come durante la malattia di sua cognata. Tutti erano occupati a lambiccar decotti, a preparar panatelle, a portar brodi e scodelle, e le pignatte intanto rimanevano vuote, e ad ora di pranzo si doveva accontentarsi di pietanze improvvisate. Per ripristinar la famiglia nei soliti ufficii, e cambiare in ferma salute la lunga convalescenza della contessa, ci vollero non meno di quattro o cinque visite della cognata; in fine delle quali eravamo giunti nel cuor dell’inverno, ma la floridezza di quelle guancie preziose era assicurata per altri trent’anni. Monsignor Orlando rivide con piacere il campo del focolare ripopolarsi a poco a poco dei larghi tegami e delle brontolanti pignatte. Se fosse ancora continuato quel regime di mezza astinenza, egli avrebbe pagato colla propria vita la guarigione della cognata. Io e la Pisana