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capitolo sesto. 267

mista di paura e di odio. Il Conte Rocco Sanfermo esponeva intanto da Torino i disordini di Francia, e le segrete trame delle Corti d’Europa; Antonio Cappello, reduce da Parigi, instava a viva voce per una pronta deliberazione. Il pericolo ingrandiva a segno tale, che non era fattibile sorpassarlo senza dividerlo con alcuno dei contendenti. Ma la Signoria non era avvezza a guardare oltre l’Adda e l’Isonzo: non capiva come in tanta sua quiete potessero importarle i tumulti e le smanie degli altri; credeva solo utile e salutare la neutralità non prevedendo che sarebbe stata impossibile. Crescevano i fracassi di fuori; le mormorazioni, i timori, le angherie di dentro. Il contegno del Governo sembrava appoggiarsi ad una calma fiducia in se stesso; ed uno per uno tutti i governanti avevano in cuore l’indifferenza della disperazione. In tali condizioni molti vi furono che più accorti degli altri si cavarono d’impiccio, partendo da Venezia. E così rimasero al timone della cosa pubblica i molti vanagloriosi, i pochissimi studiosi del pubblico bene, e la moltitudine degli inetti, degli spensierati e dei pezzenti.

L’Eccellentissimo Almorò Frumier, cognato del conte di Fratta, possedeva moltissime terre, e una casa magnifica a Portogruaro. Egli era fra quelli che senza vederci chiaro in quel subbuglio ne fiutavano da lontano il cattivo odore, e avevano pochissima volontà di scottarsene le mani. Perciò d’accordo con la moglie, che non rivedeva malvolentieri i paesi dove la sua famiglia godeva privilegii quasi sovrani, si trapiantò egli a Portogruaro nell’autunno del 1788. La salute della gentildonna che per ristabilirsi avea bisogno dell’aria nativa servì di pretesto all’andata; giunti una volta s’erano ben proposti di non rimetter piede a Venezia finchè l’ultima nuvoletta del temporale non fosse svanita. Due figliuoli che il nobiluomo aveva, tutelavano abbondevolmente in Venezia gl'interessi e il decoro della