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capitolo quinto. 243

trare al mulino, come volevano le mie istruzioni, assunsi una cert’aria d’importanza che mi fece onore. Rassicurai la contessina Clara e risposi con garbo a tutte le sue interrogazioni; indi detto alla Marianna che l’andasse a svegliare il maggiore dei suoi figliuoli, approfittai della sua assenza per istracciare la fodera della giacchetta, e cavatane la lettera la riposi, come nulla fosse, in saccoccia. Sandro era un garzoncello maggiore di me di due anni, e che dimostrava un ingegno ed un coraggio non comune; perciò il fattore m’aveva raccomandato di indirizzarmi a lui per mandar quella scritta a Portogruaro. Egli si tolse l’incarico senza neppure pensarci sopra; si buttò la giubba sulle spalle, mise la lettera nel petto, e uscí fuori zufolando come andasse ad abbeverare i buoi. La strada ch’ei dovea tenere verso Portogruaro s'allontanava sempre piú da Fratta, e non c'era pericolo che fosse sorpreso e intercettato. Perciò io stava senza alcun timore, beato beatissimo di veder uscire a buon fine tutte le commissioni affidatemi, e piene le orecchie degli elogi che mi sarebbero suonati intorno nella cucina del castello. Benché mi avesse detto il signor Lucilio di far compagnia alla signora Clara fino al ritorno del messo, il terreno mi bruciava sotto di rimettermi in moto; quell’andare e venire, quel mistero, quei pericoli aveano dato l’abbrivo alla mia immaginazione infantile, e non potea più stare senza qualche grande impresa per le mani. Mi saltò allora in capo di rientrare nel castello a darvi contezza di quella parte dell’incarico che aveva già avuto effetto; salvo sempre di rinnovare la sortita per saper la risposta del vice-capitano di giustizia. La Clara, udita questa mia intenzione, domandò risolutamente se mi bastava l’animo di far passare la fossa anche a lei. Il mio piccolo cuore palpitò piú di superbia che d’incertezza, e risposi col volto fiammeggiante e col braccio teso che mi sarei annegato io, piuttostoché far bagnare a lei la falda della veste. La Ma-