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capitolo quarto. 195

e convien dire che non si sentisse la coscienza affatto candida, perchè a prima giunta mostrò aver della cosa maggior dispiacere e spavento che non volesse dimostrarne in seguito. Egli pensò, guardò, pesò, ripensò ancora: e finalmente un bel giorno che a Fratta s’erano alzati da tavola, fu annunciata al signor conte la sua visita. Il cappellano, che era in cucina, credo che all’annunzio di quel nome stesse lì lì per andare in deliquio; quanto al signor conte, dopo aver cercato consiglio negli occhi de’ suoi commensali che non erano nè meno stupiti nè più sicuri dei suoi, egli rispose balbettando al cameriere che introducesse pure la visita nella sala di sopra; e che egli col cancelliere sarebbe salito incontanente. Erano troppe le minaccie, i rischi, e le spiacevolezze di quella visita, perchè si potesse neppur sperare di ripiegarsi con una consulta preventiva; e d’altra parte i due pazienti non erano tanto aquile da sbrigare in due minuti una tale deliberazione. Perciò misero rassegnatamente la testa nel sacco; e salirono di conserva ad affrontare la temuta arroganza e la non men temuta furberia del prepotente castellano. La famiglia rimase nel tinello coll’egual batticuore della famiglia di Regolo, quando si trattava nel Senato se si dovesse trattenerlo a Roma o rimandarlo a Cartagine.

— Servo di Sua Signoria! — disse lestamente il Venchieredo come appena il conte e la sua ombra ebbero messo piede nella sala. E volse insieme a quest’ombra una certa occhiata, che la rese livida e oscura a tre tanti.

— Servo umilissimo di Vostra Eccellenza! — rispose il conte, senza alzar gli occhi dal pavimento ove pareva cercasse una buona ispirazione per cavarsela. Poi siccome l’ispirazione non veniva, si volse a domandarne conto al cancelliere, e fu molto inquieto di veder costui indietreggiato fino alla parete. — signor cancelliere... — si provò a soggiungere.