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124 le confessioni d’un ottuagenario.


Un po’ tremando, un po’ confortandomi mi arrampicai fin sul dorso della bestia, e colui mi aiutava con una mano, dicendo che non avessi timor di cadere. Là in quei paesi si nasce quasi a cavallo, e ad ogni ragazzotto si dice: monta su quel puledro! come gli si dicesse: va a cavalcione di quella stanga. Or dunque acconciato che mi fui, si diede giù in un galoppo sfrenato che per quella strada aveva tutti i pericoli d’un continuo precipizio. Io mi teneva con ambe le mani al petto del cavaliero, e sentiva i peli d’una barba lunghissima che mi soffregavano le dita.

— Che fosse il diavolo? pensai — Potrebbe anche darsi! — E feci un rapido esame di coscienza, dal quale mi parve rilevare che io avea peccati oltre al bisogno per dargli ogni diritto di condurmi a casa sua. Ma mi risovvenni in buon punto che il cavallo s’era impaurito della mia ombra, e siccome i cavalli del diavolo, secondo me, non dovevano avere le debolezze dei nostri, così mi diedi un po’ di pace da questo lato. Se non era il diavolo poteva per altro essere un suo luogotenente, come un ladro, un assassino, che so io? — Nessuna paura per questo: io non aveva denari, e mi sentiva l’uomo meglio armato contro ogni ladroneria. Così dopo aver pensato a quello che non era, mi volsi a sindacare quello che poteva essere il mio notturno protettore. Peggio che peggio! Sfido l’immaginazione d’un napoletano a giungere a conclusione più certa di quella cui giunsi io; e per me allora io avea finito col decidere che non potea saperne nulla. Tutto ad un tratto il negro soggetto di tali fantasticherie mi si volse incontro col suo gran barbone, e mi chiese colla solita voce poco aggraziata.

— Mastro Germano ce l’avete ancora a Fratta?

— Sissignore! — risposi dopo un guizzo di sorpresa per quella vociata repentina. — Egli regola ogni giorno l’orologio della torre; apre e chiude il portone; e spazza anche