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laurea. Ma ora siamo al punto dell’eterna quistione fra lui e il suo signor padre. Non ci aveva modo che questi potesse indurlo a conseguire quella benedetta laurea. Gli metteva in tasca i denari del viaggio per l’andata ed il ritorno, più l’occorrente per la dimora d’un mese, più la tassa del primo esame; lo imbarcava a Portogruaro sulla barca postale di Venezia. Ma Lucilio partiva, stava e tornava senza denari, e senza aver fatto l’esame. Sette volte in due anni egli fu assente in questo modo ora un mese ed ora due; e i professori della Facoltà medica non avevano ancora assaggiato la sua prima propina. Che faceva egli mai durante quelle assenze? Ecco quello che il dottore Sperandio s’incaponiva di voler discoprire, senza venirne a capo di nulla. Sulla settima scoperse finalmente che il suo signor figlio non si prendeva neppur la briga di arrivare fino a Padova; e che giunto a Venezia vi si trovava tanto bene, da non ritener opportuno di andar oltre a spendere i danari del papà. Questo poi egli lo seppe da un suo patrono Senatore, da un certo nobiluomo Frumier cognato del conte di Fratta, che villeggiava nella bella stagione a Portogruaro, e che insieme lo ammoniva della condotta alquanto sospetta tenuta da Lucilio a Venezia a cagion della quale i Signori Inquisitori lo tenevano paternamente d’occhio. — Giuggiole! non ci voleva altro! Il dottor Sperandio abbruciò la lettera, ne scompose le ceneri colla paletta, guardò in cagnesco Lucilio che si asciugava rimpetto a lui le ghette di bufalo; ma per lunga pezza non gli parlò più della laurea. Peraltro lo menava in pratica con lui per esperimentare il grado della sua erudizione nella scienza d’Esculapio; e siccome s’era trovato contento della prova, s’era messo a mandarlo qua e là per rivedere le lingue o le orine d’alquanti villani visitati da lui la mattina. Lucilio apriva sul taccuino le partite di Giacomo, di Tom e di Matteo colla triplice rubrica di polso, lingua ed orina: poi