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86 le confessioni d’un ottuagenario.

cai indarno nel mondo un luogo di riposo pei miei pensieri. Dopo molti e molti anni strappai al mio cuore un brano sanguinoso sul quale era scritto giustizia, e conobbi che la vita umana è un ministero di giustizia, e l’uomo un sacerdote di essa, e la storia un’espiatrice che ne registra i sacrifici a vantaggio dell’umanità che sempre cangia e sempre vive. Antico d’anni, piego il mio capo sul guanciale della tomba: e addito questa parola di fede a norma di coloro che non credono più, e pur vogliono ancora pensare in questo secolo di transizione. La fede non si comanda; neppur da noi a noi. A chi compiange la mia cecità, e lagrima nella mia vita uno sforzo virtuoso ma inutile che non avrà ricompensa nei secoli eterni, io rispondo: Io sono padrone in faccia agli altri uomini del mio essere temporale ed eterno. Nei conti fra me e Dio a voi non tocca intromettervi. Invidio la vostra fede, ma non posso impormela. Credete adunque, siate felici, e lasciatemi in pace.

La contessina Clara, oltre all’esser credente, era devota e fervorosa; perchè all’anima sua non bastava la fede e le abbisognava inoltre l’amore. Per altro la sua voce di santità non era soltanto raccomandata al fervore e alla frequenza delle pratiche religiose; ma anche meglio ad atti continui ed operosi delle più sante virtù. Il suo portamento non mostrava l’umiltà della guattera o della massaja; ma quella della contessa, che deriva da Dio le sproporzioni sociali, e si sente dinanzi a lui uguale all’essere più abietto dell’umana famiglia. Aveva quello che si dice, il dono della seconda vista per indovinare le afflizioni altrui, e quello della semplicità, per esserne fatta di comune grado consigliera, e consolatrice. Alla ricchezza dava quel valore che le veniva dal bisogno dei poveri; il vero valore, come dovrebbe stabilirlo la sana economia, per diventar benemerita dell’umanità. La gente diceva ch’ella aveva le mani bucate; ed era vero, ma non se ne accorgeva come di un