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signore invece aveva tempo di appiccare il primo sonno, e toccava a Gregorio sostenerlo e scuoterlo, se no tutte le sere egli sarebbe rotolato sulla signora Veronica che gli veniva dietro. Giunta che era tutta la schiera nella sala, succedeva la funzione della felice notte, dopo la quale si sparpagliavano in cerca delle rispettive stanze; e ve n’erano di tanto lontane, da aversi comodamente il tempo di recitare tre Pater tre Ave e tre Gloria prima di arrivarvi. Così almeno diceva Martino, cui dopo la sua giubilazione era assegnato per alloggio un camerino al secondo piano contiguo alla torre e vicino alla stanza destinata pei frati quando ne capitava qualcheduno alla cerca. Il signor conte occupava colla moglie la camera che da tempo immemorabile avevano abitato tutti i capi della nobile famiglia castellana di Fratta. Una camera grande ed altissima, con un terrazzo che d’inverno metteva i brividi solo a specchiarvisi dentro, e col soffitto di travi alla cappuccina, dipinte d’arabeschi gialli e turchini. Terrazzo parete e soffitto eran tutti coperti da cignali, da alberi e da corone; sicchè non si poteva buttar intorno un’occhiata senza incontrare un orecchio di porco, una foglia di albero, o una punta di corona. Il signor conte e la signora contessa nel loro talamo sconfinato erano lateralmente investiti da una fantasmagoria di stemmi e di trofei famigliari; e quel glorioso spettacolo imprimendosi nella fantasia prima di spegnere il lume, non potea essere che non imprimesse un carattere aristocratico anche alle funzioni più segrete e tenebrose del loro matrimonio. Certo, se le pecore di Giacobbe ingravidavano di agnelli pezzati pei vimini di vario colore che vedevano nella fontana, la signora contessa non dovea concepire altro che figliuoli, altamente convinti e beati dell’illustre eccellenza del loro lignaggio. Che se gli avvenimenti posteriori non diedero sempre ragione a questa ipotesi, potrebbe anche essere stato per difetto più del signor conte che della signora contessa.