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La burana. 191

— Bevi senza paura, mio signore, — diceva il gigante sorridendo. — Il mio corpo ne è ben fornito. —

Hossein ingoiò tre o quattro sorsi, poi si ritrasse.

— Grazie, mio fedele Tabriz, — mormorò. — M’hai ridata la vita.

— Ne hai abbastanza? —

Hossein fece col capo un cenno affermativo, poi cadde all’indietro come colpito da un improvviso torpore.

Il gigante si strappò un pezzo della manica, si fasciò strettamente la ferita, d’altronde piccolissima, gettò sul padrone uno sguardo soddisfatto, poi si alzò, mormorando:

— Lasciamolo un po’ riposare; pel momento nessun pericolo ci minaccia e poi fra pochi minuti le tenebre scenderanno. Salì su un monticello di sabbia, il più alto che vi era in quel luogo e guardò attentamente tutto all’intorno.

— Dove trovare un albero od una sorgente? — si chiese. — Sono rari in questa steppa maledetta, nondimeno qualche po’ di verdura di quando in quando la si può trovare.

Se potessi sapere dove ci troviamo noi!.... Siamo lontani dall’accampamento o vicini? Ecco il pericolo.

Bah!.... Tabriz ha le gambe lunghe ed è in forza. Non fermiamoci qui. —

Prese Hossein fra le braccia, serrandoselo ben stretto al petto, come se fosse un fanciullo e si mise risolutamente in marcia, dirigendosi verso ponente.

— Sempre diritti finchè troveremo l’Amur Darja, — mormorò.

Il sole scompariva fra una gran nuvola rossa, che diventava rapidamente oscura e le tenebre cominciavano a calare. All’orizzonte opposto però un altro disco, reso grande dalla rifrazione e pure rosso, sorgeva lentamente: era la luna.

Tabriz continuava ad avanzare, salendo e scendendo le dune sabbiose, cogli orecchi tesi, cogli occhi sempre in movimento. Cercava di raccogliere qualche lontano rumore o di scorgere qualche cavaliere.

Certo i soldati dell’Emiro, passata la burana, dovevano aver scoperti i loro due camerati accoppati da quei due tremendi pugni e forse in quel momento stavano cercando in tutte le direzioni i fuggiaschi.

Era quella la paura che aveva invaso Tabriz e che lo spingeva