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NELLA ROTTA DI MONTECATINI

     — Con Federigo intendo far trieguare
50Lo re Ruberto che li fie ben duro,
Più che pietra di muro;
E dorma la question dell’isoletta.
Quel d’Aragona fo sollecitare
Ch’entri nel regno sardo1, ch’è suo puro,
55Dirittamente: e giuro
Che Pisa aver non può maggior distretta.
Deliberato avem di far vendetta:
Ma ho veduto alcun ch’è già2 affrettato,
Che poscia ha il suo disnor moltiplicato. —
60     — Perdonami, reina di tristizia,
Ch’a tal millanto non do fede alcuna.
Apri ben l’altra e l’una
Orecchia e intendi, ch’io non so allamano:
Che il re Roberto, fonte d’avarizia3,
65Per non scemar del colmo della Bruna
Passerà esta fortuna
E smaltirà il disnor, temendo ’l danno.
Tosto vedrem come le cose andranno.
Se tu per questo il trovi rimutato,
70Voglio esser nella fronte suggellato. —
     — Perchè Roberto re non fosse in terra
Nè altro mio figliuol nè discendente,
Io n’ho il cuor sì fervente

  1. A distogliere dalla Sicilia Jacopo re di Aragona e fratello di Federico, il papa gli promise la Sardegna: che infatti egli conquistò più tardi (1323) sui Pisani.
  2. Il manoscritto ha: che gia; si può leggere: ch’è già, oppure che gìa.
  3. I contemporanei deplorano spesso la sozza avarizia di Roberto. L’Emiliani credette che la bruna (cfr. l’ultimo verso della stanza seguente) fosse una moneta, usando dei testi citati dal Ducange: ma era da avvertire che la bruna fu moneta genovese e non napoletana, e che a’ tempi di cui parliamo non correva più.
    Leggasi invece il Mussato (De gestis Italicorum (Res. Ital. Scrip.), vol. X, libro V, rub. II), ove parla degli eserciti raccolti da Roberto coi denari che in turri quam Brunam vocitant aggregaverat; facendo maraviglia agli accusatori della sua avarizia che egli fosse contro al cognato sì largo di somme innumerevoli.

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