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loro l’aquila. Questo dubbio divenne per noi probabilità quando abbiamo osservato che tali pezzi erano gli unici col nome di Scio, i cui esemplari sino all’epoca presente tra noi fossero conosciuti e rinvenuti in queste parti d’Italia, anzi quasi esclusivamente nelle provincie già formanti la repubblica di Genova, quando di tutti gli altri nessuno, per quanto ci consta, mai vi si scoperse.

Abbiamo dunque voluto cercare se avessero alcun rapporto col grosso genovino che si lavorava dopo il 1421 nella capitale della Liguria, cioè da quando i maonesi avevano potuto inquartare nello stemma l’aquila, ed appunto vediamo che Filippo Maria Visconti, duca di Milano e signore di Genova, dal 1421 al 1436 fece lavorare in questa città grossi, come abbiamo potuto riconoscere pesandone vari esemplari, di denari 2. 10 ossia di grammi 3.095 ed a millesimi 950: inoltre che nel 1437 dal doge Tommaso Campofregoso1 fu ordinato che il grosso dovesse essere a denari 11. 12 ed a pezzi 100 per libbra sottile, epperciò di grammi 3.171 pari a denari 2. 11. 9 caduno, equivalendo questa a grammi 317.095; ed avendo ancora verificato il peso di altri del doge XXVI battuti dal 1450 al 1457, e trovatili di denari 2. 12, cessato ogni dubbio, restammo convinti che uguale a questo grosso deve essere il nostro pezzo, e forse a tal legge venne lavorato per ottenere che anche nella madre patria la moneta d’argento di Scio potesse aver corso, e così anche si ricevesse nelle contrattazioni tra Genovesi e Sciotti, nelle quali non v’era l’uso che di contare a ducati.

Altra ne segue simile alla suddetta in tutto (T. III, n.ᵒ 30), ad eccezione che manca la rosetta, ed invece per contrassegno ha nel campo a sinistra fra le due braccia superiori della croce un piccolo bisante. Ne ignoro il peso avendone solamente il disegno, ma certamente deve esser uguale a quello dell’antecedente.

Altra evvene ancora nel tipo affatto alla anzidescritta uguale (T. III, n.ᵒ 31), ma di diametro un po’ inferiore, e con questa, varietà che dopo la parola Chii prima dei due punti vi è una rosetta contrassegno del maestro della zecca. Dal suo peso, sebbene di soli denari 2. 10. 2, o grammi 3.100, vedesi essere stato lavorato alla stessa legge del num. 29.


  1. GandolfiDella moneta antica di Genova. Tomo II, pag. 234.